Si parla tanto (e la difficile situazione economica in cui versa il Canavese lo richiede) di welfare, di disoccupazione, di “ripresina”, di Piani Strategici per creare sinergie tra comuni, enti, associazioni e istituzioni, delle prospettive occupazionali che per i giovani mancano. E agli over cinquanta chi pensa? Chi pensa a coloro che per una ragione o per l’altra hanno perso il lavoro e, a causa dell’età, non riescono a reinserirsi nel ciclo produttivo?
E’ la solita storia: troppo vecchio per trovare lavoro e troppo giovane per andare in pensione, soprattutto dopo l’entrata in vigore della “famigerata” riforma Fornero. Gli over 50 in Italia sono quasi un milione. Nel solo Canavese qualche migliaio. Cifre che fanno riflettere e che mettono in evidenza come il sistema produttivo-sociale, recessione a parte, non sia in grado di pensare a queste persone che non sono solo operai, tecnici, ma anche dirigenti e quadri. Persone che hanno famiglia, che spesso devono accontentarsi non solo di lavoretti più che precari ma che sono costretti a mettersi nelle mani di pseudo imprenditori che li pagano ancora meno dei nordafricani che raccolgono pomodori nelle regioni del Sud a 3,50 euro l’ora.
Benvenuti nell’Eldorado del Nord industrializzato, nel Canavese che punta sull’innovazione tecnologica, che crea nuovi posti di lavoro o riqualifica coloro che sono senza occupazione, che investe nell’economia hi-tech, che parla di un mondo del lavoro che esiste, in molti casi, solo sulla carta o nei proclami dei politici.
LA TESTIMONIANZA
P.F. ha 56 anni. Ne aveva poco più di 48 quando ha perso il posto di lavoro. Una moglie invalida a carico che per curarsi deve comprare farmaci salvavita declassati in fascia C e quindi a pagamento, sopravvive (ed è un ottimista eufemismo) grazie a piccoli lavori che riesce faticosamente a reperire.
P. F. si è diplomato 35 anni fa a pieni voti, ha svolto vari lavori in mansioni dirigenziali e la sua vita pareva scorrere senza scosse. Certo, l’avvento dell’euro, lo ha penalizzato nello stipendio come è successo a molti altri, ma almeno poteva dire di vivere dignitosamente. Poi il crollo: perso il lavoro ha dovuto vendere (anzi svendere) la cassetta di proprietà ed è iniziato il calvario senza fine. Gli amici si sono dileguati (lo erano davvero?) e per un po’ ha dovuto accontentarsi di contratti a progetto della durata di sei mesi, del tutto insufficienti per tirare avanti. In questi anni è riuscito a sopravvivere grazie al modesto gruzzolo che la vendita della casetta gli aveva fruttato e grazie alla pensione d’invalidità della moglie che ammonta a ben 446 euro mensili.
“Con quella pensione paghiamo l’affitto e le spese del bilocale in cui abitiamo – racconta -. Per le utenze e per acquistare cibo è una lotta quotidiana e senza speranza. Rispondo a centinaia di annunci, ma in genere ti propongono di vendere ogni sorta di merce porta a porta; ci rimetti le suole delle scarpe, il gasolio per andare in giro e alla fine ti accorgi di aver perso anche i pochi spiccioli che ti illudevi di aver guadagnato”.
NESSUNA SPERANZA
P.F. è un professionista, regolarmente iscritto a un albo. Di proposte di lavoro ne ha ricevute parecchie, soprattutto inerenti alla sua specializzazione: a conti fatti dovrebbe pagare i datori di lavoro per svolgere il suo mestiere. Vacanze? Sono un sogno da anni. Disperazione? Tanta e così opprimente da farlo finire in ospedale dopo aver tentato di togliersi la vita. Si è salvato per un caso fortuito, perché probabilmente non era arrivata la sua ora o perché le sue tribolazioni non erano finite.
“Quel che fa più male, oltre all’importante aspetto economico – racconta con amarezza – è che alla fine ti senti umiliato, perdi la dignità, sei costretto a mendicare un lavoro qualsiasi. Ho persino imbucato per mesi volantini nelle buche delle lettere. A volte invidio i ‘vu cumprà o chi mendica all’uscita dei supermercati perché alla fine della giornata guadagna più di quanto abbia fatto io in 14 ore di lavoro. Cerco di essere ottimista e qualche volta lo sono, ma non ne posso più di questa vita che non è tale. Mi sono rivolto agli amici, a conoscenti imprenditori di una certa importanza che magari un piccolo impiego avrebbero potuto darmelo e non si sarebbero certo impoveriti per questo: in cambio ho ricevuto espressioni ipocritamente contrite, pacche sulle spalle, tante parole di incoraggiamento. Ma una cosa è certa: soltanto il pensiero di lasciare mia moglie che è ancora l’unica persona a credere in me e che non merita di rimanere da sola nelle sue condizioni, mi ha impedito di farla finita una volta per tutte. Ma la disperazione cresce di giorno in giorno e non intravvedo nessuna minima prospettiva”.
STORIA DI ORDINARIA DISPERAZIONE
Quella di P.F. è una storia di ordinaria disperazione come si suole scrivere in gergo giornalistico, che non suscita neanche più commozione. Amicizia, generosità, senso di solidarietà umana, sono parole senza senso per P.F. che questa sera andrà a letto senza sapere come farà a sopravvivere l’indomani. Un Paese civile è un’altra cosa.
Dov'è successo?
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