
Cuorgnè, l’Unitre inaugura l’Anno Accademico una lezione di civiltà: il carcere come specchio della società
Con il tema “Il carcere come specchio della civiltà: giustizia, educazione e dignità”, l’Unitre di Cuorgnè ha inaugurato mercoledì 8 ottobre l’anno accademico 2025-2026, dando il via a un ciclo di 31 conferenze dedicate alla conoscenza come occasione di incontro e crescita condivisa.
La cerimonia si è aperta con i saluti del sindaco Giovanna Cresto, affiancata dal vicesindaco Giovanni “Vanni” Crisapulli, dagli assessori Laura Ronchietto Silvano e Lara Calanni Pileri, e dai consiglieri Maria Grazia Gazzera e Bruno Bruschi. Presenti anche il consigliere regionale Mauro Fava, Sara Bertone – ispettrice delle Infermiere volontarie della Croce Rossa – e diversi volontari CRI. A introdurre i lavori, la presidente dell’Unitre Maria Calvi di Coenzo, che ha sottolineato il valore umano e sociale dell’educazione permanente: «All’Unitre non si viene solo per imparare, ma per incontrarsi, condividere e sentirsi parte di una comunità».
Protagonisti della conferenza inaugurale sono stati l’avvocato Mauro Bianchetti, il volontario Sergio Abis e Armando Michelizza, presidente dei Volontari Penitenziari dell’Associazione Beiletti. Tre voci diverse, unite da una stessa idea: il carcere come misura di civiltà.
Bianchetti ha aperto la discussione citando l’articolo 27 della Costituzione, ricordando che la pena deve tendere alla rieducazione. Ha denunciato le condizioni difficili delle carceri italiane – sovraffollamento, carenze strutturali e mancanza di educatori – e ha invitato a ripensare il sistema in chiave più umana, con misure alternative e percorsi di reinserimento.
Abis ha posto l’accento sull’inefficacia del modello attuale, che produce recidiva e marginalità. Ha raccontato esperienze virtuose come quella della cooperativa “La Collina” in Sardegna, dove i detenuti lavorano e si formano, riducendo la recidiva al 4%. «Una società giusta non è quella che punisce di più, ma quella che redime di più», ha affermato.
Michelizza, con quarant’anni di esperienza nelle carceri, ha parlato del “vuoto” quotidiano come della vera pena: l’assenza di senso, lavoro e fiducia. Ha ricordato che «l’ozio forzato è una condanna nella condanna» e ha raccontato piccoli esempi di rinascita attraverso laboratori, scrittura e formazione.
Dalle tre testimonianze è emerso un messaggio condiviso: il carcere riflette la società che lo costruisce. Se diventa un luogo di educazione, lavoro e dignità, può restituire persone migliori alla comunità. «La vera sicurezza – è stato detto – non nasce dalle sbarre, ma dalle relazioni».