Canavese: 30 operai tra italiani, cinesi e romeni segregati in laboratori lager ad Agliè e Cuceglio

22/11/2019

“5 euro per 15 ore lavorative, per un salario pari 0,30 centesimi all’ora”: già da solo questo elemento poteva bastare alla Guardia di Finanza per sequestrare due grossi laboratori di Agliè e Cuceglio nel torinese, ma quando questa mattina sono entrati in un deposito clandestino a due passi dal centro di Montalenghe, i finanzieri hanno trovato una cornice ben più degradante. Proprio qui infatti, sotto casa dei genitori dei due imprenditori cinesi coinvolti, tra lettini per riposare ed una cucina improvvisata erano installate le macchine per cucire, e “montagne” di pellami erano pronte per confezionare prodotti destinati ad importanti marchi automobilistici internazionali.

Cinesi, ma anche italiani e romeni, una trentina di operai sottoposti, da parte dei due imprenditori – la ventottenne W.M., sposata con un imprenditore italiano di origini calabresi, e W.Q di ventisei anni – a condizioni di sfruttamento nel più totale degrado, approfittando del loro stato di bisogno. Nei confronti dei dipendenti le retribuzioni erano infinitamente inferiori a quelle spettanti dai contratti collettivi; sul punto basti pensare che qualsiasi altro “operaio specializzato”, in relazione alla mole di lavoro prodotto giornalmente, circa 2/3.000 pezzi, avrebbe percepito tra i 2.500/3.000 euro mensili se pagati a cottimo, mentre la reale retribuzione – corrisposta peraltro in nero – era in molti casi di 150 euro al mese.

I titolari delle aziende coinvolte, seppur giovani, erano in grado di sfruttare il lavoro dei loro dipendenti, molti dei quali loro connazionali, violando le più basilari norme sull’orario di lavoro, sul riposo settimanale, pressoché sconosciuto, nonché sulle ferie. Carenti, come accertato dai Finanzieri del Gruppo Pronto Impiego Torino, anche le norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro. Gli operai, oltre a subire condizioni lavorative vicine alla schiavitù, erano continuamente monitorati a distanza attraverso un sistema di videosorveglianza che carpiva ogni “distrazione” dell’operaio, mentre l’impianto di riscaldamento era inesistente.

Anche per questo nei prossimi giorni la posizione dei due imprenditori coinvolti nell’operazione di giovedì 21 novembre, potrebbe aggravarsi fino ad ipotizzare l’accusa di “riduzione in schiavitù”, reato che prevede una pena sino a 20 anni di carcere. I lavoratori venivano infatti alloggiati in giacigli attigui alle postazioni di lavoro con lettini, fornelletti elettrici o a gas, bagno in comune, tra l’altro in alcuni casi non funzionante, tanto che i lavoratori espletavano i loro bisogni in comuni buste di plastica.

Questo era l’ambiente domestico, e solo la luce artificiale dei neon poteva illuminare sia l’ambiente di lavoro sia i giacigli, in quanto la luce naturale era oscurata da appositi pannelli che impedivano la visuale all’interno ed all’esterno dei locali, anche per impedire ad occhi indiscreti di notare le condizioni e gli orari di lavoro all’interno degli opifici. La luce del sole non era quindi consentita, si iniziava a lavorare alle 9 del mattino, e si terminava dopo le 24.00 senza soluzione di continuità, al massimo un pasto frugale consumato in mezzo a scatoloni e macchinari.

Ora gli stabilimenti sono stati sigillati ed i dipendenti identificati nel corso dell’operazione non saranno più sfruttati per pochi euro, mentre continuano le indagini dei Baschi Verdi Torinesi per meglio delineare le responsabilità dei soggetti coinvolti nella vicenda. I due imprenditori dovranno rispondere alla Procura della Repubblica di Torino di reati quali lo sfruttamento del lavoro ed il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

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